Angelo Faliva.

WASHINGTON – L’ineffabile polizia delle Bermuda ha chiuso il caso: Angelo Faliva, cuoco italiano scomparso a bordo della nave da crociera Coral Princess, “si è allontanato volontariamente dal posto di lavoro”.

Dunque, in base alle indagini, condotte a distanza, lo chef sarebbe scappato nel bel mezzo dei Caraibi, a un giorno di distanza dal porto colombiano di Cartagena.

I dubbi sulla scomparsa Faliva

E in che modo? Su una scialuppa? A nuoto? Una verità incredibile. Una verità non credibile che non cancella il dramma del giovane cremonese.

Il giallo – perché di questo si tratta – inizia nella serata del 24 novembre 2009. La Coral Princess, hotel galleggiante con duemila persone
a bordo, dopo aver lasciato la Florida punta verso Sud, diretta in Colombia, uno dei Paesi previsti sulla rotta che deve chiudersi a Los Angeles.

Angelo Faliva, cremonese di trentuno anni, è in una delle cucine, si occupa
dei pasti per il ristorante Sabatini.

Le tracce lasciate dietro di sé

Lo vedono per l’ultima volta alle 20.15 mentre si avvia all’ascensore che conduce in un’area riservata all’equipaggio, poi svanisce nonostante il suo turno debba concludersi alle 22.

Una quarantina di minuti più tardi un suo collega italiano – con il quale condivide anche la cabina – segnala l’anomalia.

Il responsabile del reparto, uno chef filippino, non avvisa nessuno. Comportamento bizzarro, ma forse legato alle forti incomprensioni tra lui e la vittima.

È solo all’indomani, attorno alle 9, che finalmente viene dato l’allarme. Le autorità di bordo reagiscono blandamente mentre, invece, la security si preoccupa.

Ma non della sorte del cuoco, bensì del suo computer. Il portatile è violato in modo sistematico.

Qualcuno scarica file, ne stampa altri, cancella e-mail. Un atto illegale. Il materiale, grazie al lavoro dei periti ingaggiati dai familiari, è recuperato in seguito.

Emerge un’altra storia

Molti dei messaggi che sono stati distrutti riguardano una chat tra Faliva e un colombiano, un tassista di nome Tony conosciuto attraverso un membro dell’equipaggio, un nord africano.

I contatti vanno avanti per mesi, con il tassista che chiede ad Angelo di fare da corriere per pacchi di droga a Los Angeles e Miami. In cambio offre molto denaro.

È insistente. L’italiano forse prima accetta, poi si tira indietro, risponde più volte con un no, in un’occasione non si presenta all’appuntamento.

Il presunto trafficante non è contento e, guarda caso, smette di scrivere e-mail ad Angelo, l’ultimo messaggio risale al 24 novembre. Pensa: alla vigilia della scomparsa dello chef.

Tony sapeva che il suo interlocutore non c’era più? Il rifiuto di Faliva ha forse segnato la sua sorte: sapeva troppo, dovevano farlo tacere.

Sarebbe stato interessante cercare Tony il tassista, però nessuno si è spinto oltre la prima versione, di comodo.

E gli investigatori colombiani che avevano in mano il caso – ci spiega Chiara, la sorella di Angelo, protagonista coraggiosa di un’inchiesta personale sul campo – sono stati spesso sostituiti, il lavoro è rimasto a metà.

Ostacoli che si sono aggiunti a quelli sulla competenza.

Poiché la Coral Princess, proprietà della Carnival, era registrata alle Bermuda, la responsabilità dell’indagine è ricaduta sulla polizia isolana.

Che non aveva alcun interesse a “sporcare” l’industria delle crociere. Così gli agenti sono rimasti passivi.

Avevano in mano il computer portatile, ma non lo hanno esaminato. Eppure c’erano degli elementi su cui indagare. Come la collanina di Angelo.

La collanina di Angelo Faliva

Nel primo inventario degli effetti personali della vittima, compiuto in cabina dopo la sparizione, non c’è alcuna traccia dell’oggetto. La catenina ricomparirà stranamente dopo mesi, quando la spediranno ai parenti di Faliva insieme a 200 dollari che Angelo aveva ritirato poco prima da un bancomat.

Possibile che lo chef se la sia tolta? Oppure è stata sottratta prima di disfarsi del cadavere? È ipotizzabile che il bersaglio sia stato attirato in un’area remota della nave, per poi essere aggredito e gettato in mare.

Altro elemento è il cappello monouso da chef. Angelo, secondo regolamento, ne indossava uno che sarà recuperato in cabina. Si accorgono che all’interno c’è una scritta, Capilla del Mar.

È il nome di un hotel di Cartagena, lo stesso che compare nell’ultima ricerca fatta dall’italiano sul suo pc. Possibile che il cuoco, durante il lavoro, abbia ricevuto una chiamata sul cellulare e, non avendo altro posto dove annotarsi l’indirizzo, lo abbia scritto sul cappellino.

Chi erano gli amici di Faliva?

Se mettiamo insieme i tasselli del mosaico possiamo sostenere che Faliva dovesse incontrare qualcuno – il misterioso tassista Tony? – al Capilla. Terzo chiodo investigativo: l’ambiente.

Nessuno ha provato a controllare meglio chi era a bordo quel 24 novembre, gli “amici” e i colleghi della vittima. La compagnia di navigazione, a cominciare dal comandante, non ha mai mostrato collaborazione. Anzi, l’opposto.

Il solo interesse della Carnival era quello di “chiudere” in fretta, di evitare che si parlasse di un caso scomodo. Strategia del silenzio adottata in molte altre vicende che avvengono a bordo delle navi da crociera.

In questi anni, il silenzio si è interrotto solo per alcune telefonate anonime dirette alla famiglia, alcune provenienti in apparenza dal Centro America. Una voce con accento dell’Est europeo ha sostenuto che lo chef sarebbe stato assassinato.

Anche noi abbiamo provato a cercare, incontrando però il solito muro di gomma, qualche depistaggio e teorie alternative poco credibili. La sensazione è che qualcuno, anche se non coinvolto direttamente, sappia molto di più. In questo vuotodi notizie l’ultima speranza è ancorata all’azione della magistratura italiana.

Il fascicolo Faliva è ancora aperto

Il guaio è che la Procura di Cremona, titolare dell’inchiesta, ha molti altri filoni da seguire e risolvere un delitto avvenuto a migliaia di chilometri di distanza è quasi impossibile. L’unica consolazione è che per gli inquirenti
la fine dello chef italiano è un omicidio, commesso da ignoti, e non un allontanamento volontario. Il verdetto della polizia di Bermuda oltre a essere un errore giudiziario è un’offesa.