La stanza chiusa è il secondo romanzo per Deborah Brizzi, poliziotta e scrittrice milanese già nota per il suo esordio con Ancora notte (Rizzoli 2014).

La stanza chiusa (Mondadori 2018) è un noir doc, pieno di personaggi ambigui e di paesaggi rarefatti, ma anche ricco di spunti innovativi e di uno spessore psicologico di tutto rispetto.

Il primo personaggio che incontriamo è un medico che cita Manzoni e la peste… uno che rispetta le regole, tutto casa e lavoro: sottomesso alla moglie che però detesta, burattinaio di un rapporto dove mancano sia l’amore sia il rispetto.

Norma Gigli e la stanza chiusa

Poi sono quasi tutte donne: tra loro campeggiano Norma Gigli, che già conoscevamo dal romanzo precedente e di mestiere fa l’ispettrice di polizia, e Marta, una giovane che subisce molestie e sta per sporgere denuncia ma poi cambia idea.

Le due donne si rincorrono per tutto il romanzo, e sono molto di più di due semplici personaggi: rappresentano piuttosto due aspetti diversi e complementari dell’essere donna, la parte attiva, dinamica, che si prende cura, e la parte timorosa, indecisa, passiva, quella che la società ha designato come vittima.

Norma che “diventa la divisa che indossa” e Marta che si chiude in camera e piange “perché non riusciva mai a dire quello che pensava”. Due parti di una stessa identità, forse, che si rincorrono per tutto il romanzo per ricongiungersi in qualche modo e poi perdersi di nuovo.

In mezzo, altre storie: uno strano condominio, l’apertura di un testamento, la cocaina… e tante frasi che non sono mai solo d’effetto, ma che fanno riflettere. Come questa:

“lei sapeva bene che per molti era più semplice usare un pregiudizio per riempire un vuoto d’opinione”.

Frasi che suonano come sferzate all’eccesso di opinione comune, e che ci costringono a problematizzare non solo la realtà, ma il modo in cui la percepiamo e la “riceviamo”.

Deborah Brizzi (foto da Facebook).

Brizzi ha un modo spietato e insieme ironico di descrivere ruoli e persone con una battuta.

La famiglia viene liquidata in questo modo: mio padre?  “il più figo dei prestigiatori”.

Mia madre? Una che non faceva che dirmi: “mi togli 10 anni di vita”.

Poche parole che esprimono il trauma dell’abbandono, l’istillazione del senso di colpa, l’autorità maschile, e tanto altro ancora.

Milano sullo sfondo

Milano partecipa come sfondo vivo e tragico – incredibile il numero di persone che scompaiono a Milano, ci dice l’autrice, e questa non è fiction.

E tra un intervento della Squadra Mobile e una corsa della Volante ecco apparire i ricordi di una Milano vintage – il 27 giugno 1980, giorno del mitico concerto di Bob Marley – e poi Hitchcock, Il settimo sigillo, Shining, Il pranzo di Babette, Star Wars e Psyco.

Non è esibizione di cultura cinematografica – è una serie di indizi, di tracce, un gioco raffinato col lettore e la lettrice.

Dal noir a CSI

E non poteva mancare il CSI effect: “Dobbiamo toglierle la polvere da sparo, lavatele le mani” … “Giuliana, tu che ne sai?” … “Guardo CSI – ora andate”.

C’è parecchia azione, ma c’è una scena – senza fare spoiler – in cui diciamo che A immagina l’omicidio di B: ecco, quello è a mio parere uno dei brani più violenti… forse anche più di quello delle molestie sessuali e dell’omicidio stesso.

Sembra quasi che la potenza dell’immaginazione non sia mai veramente neutrale.

Eppure non ci è stato insegnato che non si può fare il processo alle intenzioni? Questo ci pone un problema etico, anche in considerazione dei software di nuova generazione che intercettano le intenzioni dei presunti criminali – quella che in gergo ormai si chiama predictive policing.

Ma non lasciamoci sviare – le fantasie di A sono ben riconducibili a una tipologia di criminale per il quale, è chiaro, Brizzi non ha alcuna pietà. Forse perché lavorando in polizia ne conosce parecchi.

E soprattutto per una donna riconoscere per tempo il suo potenziale assalitore non è pregiudizio ma strategia di sopravvivenza.

E c’è anche l’amore – un amore dolce, sensuale e inatteso. Un amore espresso in tre sole parole – “Oddio, la amo” – quasi a sottolineare che il tempo dell’innamoramento non esiste, che si passa in un momento dal non amare all’amare e che una volta che si ami, è fatta.

Hard-boiled lo è, Brizzi, ma alla stregua dei maestri. Che (pensiamo a Raymond Chandler) sapevano usare la metafora oltre a far impugnare grosse rivoltelle ai loro eroi.