Jeffrey Dahmer è stato un serial killer americano. Conosciuto anche come il Cannibale di Milwaukee, ha ucciso 17 giovani uomini e ragazzi. A sua volta è stato ucciso da un carcerato mentre scontava la sua pena.

Ciò che colpisce della storia di vita di Jeffrey Dahmer è la solitudine.

Negli incartamenti dell’FBI emerge il profilo di una persona che nessuno conosceva davvero.

Persino i suoi genitori erano all’oscuro di alcuni lati del suo carattere e, addirittura, di periodi interi della sua vita.

Gli adulti nella vita di Dahmer

Jeff è un ragazzino considerato un po’ strano. Non fosse altro per quella sua andatura così rigida, ingessata, che lo rende simile a un automa.

I primi anni in famiglia trascorrono senza alcuno scossone, nasce anche un fratellino, e i bambini crescono e nelle foto sono sorridenti.

Più avanti, a scuola, iniziano i problemi. Il futuro serial killer non frequenta i suoi coetanei, si isola e, peggio ancora, inizia a bere. Da adolescente è già alcolizzato.

Né i genitori, né gli insegnanti sembrano rendersi conto di nulla.

Ed è proprio qui che sorgono spontanee alcune domande.

Jeffrey Dahmer era davvero così bravo a nascondersi?

Jeff non era stupido. Sicuramente appariva ed era turbato, faticava a relazionarsi con gli altri, non era uno studente brillante.

E collezionava animali morti: un hobby macabro che lo escludeva dalla società.

Ma non sembra facesse molto per nascondersi. Aveva un capanno in cui scioglieva negli acidi – il padre era un chimico – le carcasse animali per conservane poi le ossa.

Ma non fuggiva, non si nascondeva nel senso proprio. Forse si potrebbe dire che si eclissava, scompariva.

Una foto di Dahmer nella graphic novel My Friend Dahmer di Derf Backderf.

Le facce buffe e i comportamenti strani

Per i compagni di classe, Jeffrey Dahmer era un buffone. Strano, non cattivo, ma certo non il tipo a cui chiedere di uscire insieme.

Semmai Jeff veniva esibito come un fenomeno da baraccone: sapeva fare imitazioni, facce buffe, a volte tremava e balbettava per prendere in giro un conoscente della madre (o la madre stessa).

Illuminante, in questo senso, è la graphic novel My Friend Dahmer di Derf Backdorf che Dahmer lo ha conosciuto per davvero, quando entrambi erano ragazzini.

La famiglia Dahmer

Lionel Dahmer, chimico, per sua stessa ammissione nel libro Mio figlio, l’assassino, dice di essere stato per lo più assente.

Non gli andava di stare a casa con la moglie, Joyce, sempre in preda a crisi di pianto. E con due bambini piccoli di cui sapeva poco.

Lionel non ha visto niente, pare, fino a che la puzza di cadavere non ha preoccupato i vicini di casa di Jeff.

Joyce Dahmer era pervasa di rabbia e rancore. Entrambi si sono rivelati per quello che erano dopo la morte del figlio maggiore.

Sono riusciti a litigare per contendersi le ceneri: sono andate metà a testa. E Joyce ha chiesto e ottenuto che il cervello di Jeffrey venisse espiantato e studiato.

Forse è stato più semplice, per un’ultima volta, demandare ad altri la responsabilità di capire chi fosse suo figlio. Il cervello di Dahmer non ha mostrato niente di rilevate.