Quello che è capitato a Justine Sacco nel dicembre del 2013 merita di essere studiato.

Immaginate di stare per prendere l’aereo: vi aspetta un viaggio di parecchie ore, prima di spegnere il telefono scrivete un tweet.

Un tweet non particolarmente di buon gusto, fraintendibile, ma in fondo è solo un tweet. 

Atterrate e scoprite che siete stati licenziati. 

Per colpa del vostro tweet. 

È successo a Justine Sacco. 

Il tweet di Justine Sacco

“Going to Africa. Hope I don’t get Aids. Just kidding. I’m white!”

“Sto andando in Africa. Spero di non prendere l’Aids. Sto scherzando. Io sono bianca!”

Il tweet capita sotto gli occhi di un giornalista, Sam Biddle, che lo condivide con i suoi follower (che ora sono quasi 50000).

Il messaggio diventa virale in pochissimo tempo, migliaia di condivisioni e di commenti di insulti che Justine non può leggere. Perché è ancora in volo.

Per capirci il New York Times definirà l’account twitter di Justine un ‘horror show’.

Justine scoprirà all’arrivo, grazie all’amica Hannah, che il suo tweet non è passato inosservato. “Sei il trend numero uno al mondo su Twitter, in questo momento” le dice l’amica. 

La società per cui lavora come capo delle pubbliche relazioni alle IAC, una grande compagnia americana che tra le altre cose possiede giornali come The Daily Beast e siti come Tinder, si è affrettata a rilasciare una comunicazione in cui dice che il tweet è vergognoso e che avrebbero preso provvedimenti. 

Licenziata. 

Consapevolezza

Al momento del tweet, Justine aveva 200 follower. Quando ha pubblicato il tweet incriminato nessuno ha risposto, lasciandola forse pure un po’ delusa. 

Nel giro di meno di 12 ore aveva perso tutto. Persino la sua famiglia l’ha rimproverata dicendole che quelli non erano i valori con cui l’avevano cresciuta.

Justine ha dovuto accorciare la sua vacanza in Sudafrica perché i dipendenti dell’albergo in cui alloggiava minacciavano di fare sciopero e nessuno poteva garantire per la sua incolumità. 

Ma il problema ovviamente non era solo la vacanza in Sudafrica o il lavoro. 

Identità

“Hanno preso il mio nome e la mia fotografia e hanno creato questa Justine Sacco, che però non sono io, e l’hanno etichettata come razzista. Ho paura che se domani perdessi la memoria per un incidente d’auto, e cercassi il mio nome su Google, quella diventerebbe la mia realtà”.

Justine Sacco a Jon Ronson, autore di I giustizieri della rete.

Il problema è esattamente qui: siamo quello che twittiamo, quello che fotografiamo, quello che rendiamo pubblico.

Justine dice che non è razzista ed è sicuramente vero, ma non si può non tenere conto della percezione che di noi hanno gli altri. Che diventa parte della nostra identità. 

Non importa che gli altri si sbaglino, che abbiano frainteso, che non abbiano capito.

A distanza di anni, questi sono i risultati con la ricerca per immagini inserendo “Justine Sacco” su Google.

Questo non ci salva da una folla inferocita che ci ritiene colpevoli, tanto più su internet dove si possono dire cose terribili senza pagarne le conseguenze (sempre che non ti capiti di essere la Justine Sacco di turno).

E gli inferociti di internet, i Giustizieri della Rete di cui parla Ronson, sono ben intenzionati a farla pagare.

In questo caso non è morto nessuno, ma non tutti sono forti come Justine, c’è chi, per molto meno, tenta il suicidio e, purtroppo, a volte ci riesce. Justine si è portata a casa un brutto trauma, uno sfregio alla sua identità.

Ha speso molte energie e molte lacrime prima di riprendersi. Solo oggi, a cinque anni di distanza, ha riavuto il suo amatissimo lavoro per IAC. Il Ceo di IAC afferma che i suoi risultati parlano per lei e quindi l’ha rivoluta indietro.

La domanda che ci si deve fare quando si posta un qualsiasi contenuto in rete è “Sono pronto a pagarne le conseguenze? Anche se venissi frainteso? Chi c’è là fuori in ascolto?”